26 dicembre 2013: l’arrivo a Delhi
Appena
scesa dall’aereo ho perso una valigia… per fortuna ne avevo un'altra!
Arrivati
a Delhi è stato difficile destreggiarsi tra tutto quello “sbrilluccichio” di
colori: orecchini di qua, borse di là, stoffe colorate… i sensi si perdevano in
quel frastuono di colori, odori speziati, persone, mucche, cani e fiori!
Sopravvissuti
a Delhi, ci siamo diretti a Rishikesh. Dove alloggiavamo, c’era un'aria di
montagna freschissima e pulita.
Il
giorno dopo gli altri hanno fatto il bagno nel Gange mentre io, che avevo una
nausea incredibile, mi sono solo sciacquata la faccia con l’acqua del Gange,
gelida e al tempo stesso purificante.
Poi
abbiamo fatto visita all’Ashram di Sri Swami Shivananda. All’interno vi era
anche una libreria molto fornita dove ho comprato il libro “Fast and Hindu
Festival” (“Digiuni e feste Hindu”) che spiega il significato simbolico delle
varie festività indiane.
Dopo
Rishikesh siamo tornati a Delhi con il nostro furgoncino guidato da Mahesh e
siccome era sabato, abbiamo recitato, come di routine, il Maha Mrityun Jaya
mantra.
Muoversi
con un mezzo di trasporto in India è un esperienza indimenticabile: il luna
park gli fa un baffo!
Poi
abbiamo preso il treno per Jasidih: un lungo viaggio, in cui sembrava quasi di
essere tornati indietro nel tempo, a quando i treni andavano così lenti.
Da
Jasidih ci siamo diretti a Deoghar, dove vi è uno dei 12 famosi templi dedicati
a Shiva, chiamati Jyotirlinga, che letteralmente significa “Linga luminoso”.
Il
mattino seguente abbiamo fatto visita al “Baba Badyanath Temple” dove sembrava
che tutta la popolazione indiana vi si fosse riunita in attesa di una
benedizione di Shiva, e noi anche!
Siamo
riusciti ad avere il darshan (vedere) del Jyotirlinga, nonostante l’impeto del
fiume umano di persone presente all'interno del tempietto, ci spingesse fino al
soffocamento. Mentre la gente spingeva con forza, pensavo tra me e me: “Beh!
Anche da noi è così... allo stadio, in discoteca… ma in realtà non avevo mai
sentito delle persone spingere così forte per entrare dentro un posto!
Nonostante tutto questo, non avevo paura, ero sicura che non sarebbe accaduto
niente.
Una
volta usciti dal tempio la sensazione che provavo era come se qualcuno mi
avesse dato un “lasciapassare”, e che da quel momento non avrei più avuto nessun
tipo di problema in India.
Rikhiapeeth Ashram
Da
Deoghar ci siamo diretti a Rikhiapeeth, l’Ashram di Paramahamsa Satyananda. Nei
pressi dell’Ashram il paesaggio era stupendo, c'erano tanti alberi, niente
smog, le case degli abitanti dei villaggi, la terra color rosso-arancio che contrastava
con il cielo azzurro…
Una
volta entrati in Ashram ci hanno subito “catalogati” nei registri. Le stanze
nei dormitori erano semplici e pulite. Poi quando il nostro gruppo si è
sistemato nelle varie “accomodation”, abbiamo partecipato al programma in
corso: sotto ad un tendone i Pandit stavano recitando il Rudri Path.
Il
giorno seguente ci siamo messi “in azione” aiutando a preparare e distribuire i
prasad; fuori dai cancelli dell’Ashram c’erano tutti gli abitanti dei villaggi
in attesa di ricevere i doni.
E’
stata una cosa veramente gioiosa!
La
sera del 31 dicembre abbiamo mangiato la pizza. Era molto buona, ma non è stata
come la solita pizza di cui si può fare esperienza nelle pizzerie in Italia:
nel momento in cui l’ho mangiata, ho avuto una sensazione stranissima: era come
se avessi ingerito qualcosa di magico e di colpo fosse aumentato il livello di
energia. Dopo cena siamo tornati sotto il tendone, Sw. Satsangi ha detto che il
Rudri Path è stata un offerta molto speciale per Swami Satyananda e che questa
pratica serve a rimuovere i Karma negativi. Ridendo e scherzando, Satsangi
cercò di convincere Niranjan a fermarsi anche per il giorno dopo per darci così
il messaggio per il nuovo anno.
La
mattina del 1° Gennaio abbiamo cantato kirtan e mantra: non c’è stato modo
migliore per iniziare il nuovo anno.
Dopodiché,
come nomadi, siamo ripartiti: la nuova meta era Munger, la Bihar School of
Yoga.
Ganga Darshan Munger
Appena
arrivati in Ashram a Ganga Darshan Bihar School of Yoga, c’era un’aria di
festa: stavano cantando l’Hanuman Chalisa per 108 volte. Il mantra era cantato
incredibilmente veloce dalle kanya (ragazze), accompagnato dalla musica, ed
ogni volta che finiva il mantra, una kanya correva con un cartello che indicava
il numero dei mantra cantati. L’aria di festa, allegra ed energica ti metteva
di buon umore!
In
Ashram mi sentivo al sicuro ed in confronto alla confusione dell’esterno mi
sembrava di stare in paradiso. In Ashram ho vissuto una sensazione di serenità,
semplicità, purezza, armonia e bellezza, che si poteva percepire e vedere
nell’ambiente curato dalle persone che vivevano là.
Un
giorno durante il seva conobbi un'indiana di nome Satyapriha. Gli dissi che
l’Ashram era molto bello e lei mi rispose “Grazie a Swamiji”. Con quella
risposta, capii che tutto l’ambiente che mi circondava non era gradevole solo
perché ogni cosa era al posto giusto, ma soprattutto perché dietro ad ogni cosa
vi era la presenza energetica di Swamiji: Swami Niranjan!
La routine giornaliera in Ashram
In
Ashram a Munger la routine giornaliera era la seguente:
-
dalle 5.00 alle 6.00: toilette e pratiche personali
-
ore 6.00: colazione
-
ore 7.00: pulizia dei bagni
-
ore 8.00: seva (servizio altruistico)
-
ore 11.30: pranzo
-
ore 12.30: riposo e studio
-
ore 13.30: thè
-
dalle ore 14.30 alle 17.30: seva
-
dalle 18.00 alle 20.00: studio e pratica personale
-
ore 20.30: ritiro nelle proprie stanze
Quando
arrivava l’ora del seva (servizio altruistico), bisognava andare al GDO
(Reception) dove arrivava un incaricato/a (the incharger), nel nostro caso era
una gioviale cinesina sannyas, che con il suo sorriso smagliante, tutte le
mattine ci diceva: “ARE YOU COMING FOR SEVA ?”
Una
di quelle mattine eravamo seduti davanti al GDO in attesa che arrivasse Swami
Niranjan (così ci avevano detto) e così come di prassi, la cinesina arrivò e
chiese a uno di noi: “Are you coming for
seva?”(siete venuti per il seva?) E noi “No!“ E la cinesina ripetè ridendo:
“You have to do seva!” (dovete fare
seva!)
Quel
giorno, purtroppo per noi, Swami Niranjan non si fece vivo e così la cinesina
sannyas ci affidò i seva: qualcuno “In
the kitchen” (in cucina); qualcuno in “Accomodation”
(pulire e sistemare le camere) e qualcun altro in “The pubblication’ (pubblicazioni).
Molto
spesso a me toccava “Accomodation”
(eh eh eh!), e così, insieme ad altre ragazze di varie nazionalità sistemavamo
le camere dello Shakti Vyhar, dove da piccola avevo dormito con mia madre. Tra
di noi si parlava in inglese e aiutandosi con i gesti, si intuiva quello che
c’era da fare.
Altre
volte ero in cucina per “cutting
vegetables” (tagliare le verdure) insieme a molte altre persone del nostro
gruppo, indiani e persone di altre nazionalità.
In
cucina il tempo passava velocemente, in realtà il lavoro era rilassante e
quando poi si andava a mangiare ciò che avevamo precedentemente preparato, non
si aveva la stessa sensazione di quando vai a mangiare al ristorante.
Il
cibo in Ashram era buono e leggero, ma oltre al gusto gradevole, dopo averlo
mangiato infondeva una buona sensazione.
Un
giorno ci hanno fatto tagliare i fagiolini in fettine diagonali finissime e io
proprio non capivo il motivo di quel taglio cosi complicato. L’indiano
capo-cucina alla fine mi ha messo a tagliare i peperoni, per disperazione!
L’incontro con Swami Niranjan
Un
giorno finalmente ci avvisano che avremmo incontrato Swami Niranjan e in quell’occasione
alcuni del nostro gruppo avrebbero preso l’iniziazione. Oltre a noi c’erano
altre persone di diverse nazionalità, argentini, spagnoli, colombiani, ecc.
Era
tanto tempo che non parlavo con Swami Niranjan. Mio padre gli ha detto che non
venivo in India da vent’anni, e Swamiji mi ha semplicemente chiesto in inglese:
“Che cosa hai fatto in tutto questo tempo!?”
Dopo
l’incontro avevo la sensazione di “vederci meglio”. Come una macchina
fotografica messa a fuoco fa delle foto più nitide e definite, così la mia
visione era più pulita ed intensa.
In viaggio per Varanasi
La
sera del 5 Gennaio abbiamo preso il treno da Jamalpur, la stazione di Munger,
direzione “Città santa di Varanasi”.
A
Varanasi, sulle rive del Gange, abbiamo preso la barca costeggiando il fiume
sacro. Ognuno di noi ha lasciato sulle acque del Gange una ciotola con dei
fiori e una fiammella accesa, esprimendo al contempo il proprio desiderio e la
propria preghiera a “Madre Ganga”.
Poi
ci siamo avvicinati alla riva dove nelle venivano bruciati i morti. C’erano
diversi fuochi accesi, circondati da persone che con dei bastoni sistemavano i
corpi; si sentiva uno strano odore e in quel momento sembrava stessi guardando
un film. Sapere che il fuoco riesce a bruciare un corpo, ti fa capire quanto
sia potente!
Quando
poi ci siamo allontanati, poco più in là c’era uno spettacolo che esprimeva
l’esatto opposto di ciò che avevamo appena visto prima. Tutte le sere, al
tramonto, alcuni bramini eseguono una cerimonia chiamata “Aarti”, celebrazione
in onore del Gange.
I
bramini vestiti di color oro e rosso, fanno con le braccia una sorta di
coreografia con movimenti circolari, in tutte le direzioni, offrendo incenso,
acqua, fiori e luce con candelieri pieni di candeline accese.
Il
fuoco è presente, ma in questo caso non è distruttore, è vitale e devozionale.
Tutto è accompagnato da una musica bellissima. Intorno, indiani e turisti,
guardano meravigliati quel divino spettacolo.
La conclusione del viaggio.
La
cosa che più mi ha colpito in India è la povertà. Guardandoti attorno quasi ti
senti stupido a fare “il turista”: bambini piccoli ti chiedono l’elemosina di
sera in mezzo al traffico; i ragazzi ti inseguono per tutta la via tentando di
venderti delle collanine; le case-baracche ai lati delle strade con i tetti
fatti di stracci; persone che litigano con una scimmia per un piatto di riso!
La
povertà contrasta con la bellezza dei templi minuziosamente decorati, dipinti e
scolpiti, e con l’artigianato indiano che affascina i molti turisti. Nei templi,
le divinità vengono vestite e adornate con ghirlande di fiori e collane: sono
l’emblema della bellezza.
Gli
indiani hanno il massimo rispetto per tutto ciò che è sacro: dentro i templi non
si può entrare con le scarpe e all’entrata le guardie controllano attentamente
che i visitatori non abbiamo le “odiate” macchine fotografiche.
Ma
a parte quest’aspetto che fa riflettere, così come tutta l’India e soprattutto
come il periodo passato in Ashram, alla Bihar School of Yoga, sono stata molto
contenta di questo viaggio poichè mi è piaciuto veramente molto e al ritorno mi
sono sentita più stabile e decisa.
Insomma,
alla domanda di come sia andato questo viaggio, la mia risposta è: “Bahut accīa!” (molto
bene!)